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Facevamo servizio pubblico

FACEVAMO SERVIZIO PUBBLICO

Fu strano per un ragazzo di ventiquattro anni arrivare dalla provincia di Napoli a Milano. Arrivarci in gennaio con la nebbia, il freddo e tutti gli stereotipi piazzati lì davanti agli occhi e ai giacconi mai abbastanza pesanti. Era il 1996. L’anno, per me, delle prime sciarpe, la prima volta dei guanti. Arrivai il sabato e il lunedì si cominciava, in Comune. Un ente gigante e gigantesco, ventimila dipendenti, allora. Oscillavo tra paura del nuovo, contentezza per averla scampata e voglia di dimostrare che noi del Sud lavoravamo e che non era vero ciò che si diceva. Ma poi realmente cosa si diceva? A dirla tutta non l’ho mai saputo. I primi mesi furono strani: uffici e archivi troppo grandi e sporchi, computer che non arrivavano, colleghi che non ti parlavano. La confidenza da non dare a uno col contratto al termine e, per giunta, terrone. ‘Na munnezza.  Una cosa mi piacque da quasi subito: i colleghi più anziani. Quelli che del lavoro in Comune, del “servizio per il pubblico”, ne avevano fatto una ragione di vita. Una morale. Arrivavano con le scartoffie in mano, con la loro pratica da farti inserire nel database, e dicevano frasi così: Ragazzo, ricorda che noi dobbiamo delle risposte alle persone, e quelle risposte gliele dobbiamo, che i computer ci siano o no, che le fotocopiatrici funzionino o meno. Quello che mi ha insegnato tutto si chiama Antonio (ora in pensione, beato lui). Antonio mi diceva: “Ragazzo, per prima cosa mandiamo a casa la gente, risolviamo il loro problema, il resto <<burocratico>>lo mettiamo a posto dopo, a sportelli chiusi”. Lui ci credeva e ci ho creduto io. Quella lezione l’ho imparata a memoria e la applico a tutto, pure al resto della vita. Negli anni sono cambiate molte amministrazioni, governi, modi di intendere l’attività degli uffici pubblici. La dinamica dei costi e ricavi, del profitto, del privato, è entrata di prepotenza. L’efficienza della pubblica amministrazione (che è necessaria) è stata mischiata e confusa all’idea che questa debba rendere profitto, questo ha fatto sì che si perdesse di vista l’interesse pubblico. Non è così, il pubblico resta il pubblico, anche con le mail, la firma elettronica, i certificati on-line. Gli amministratori, ma anche noi impiegati, l’abbiamo dimenticato. Tutti, a un certo punto, abbiamo confuso il raggiungimento dell’efficienza, l’abbattimento dei costi, le nostre delusioni personali con la quasi totale dimenticanza del cittadino. La persona è diventata utente. Utente uguale seccatura. Allora: ridurre l’orario di accesso al pubblico, non sprecare troppo tempo al telefono, sbuffare per una perdita di tempo dovuta a una lamentela. Come se il tempo impiegato a risolvere un problema, a essere gentili, fosse sprecato. O fossimo sprecati noi. La cosa più bella di questo lavoro era (ma dovrebbe esserlo ancora) la signora che ti diceva: grazie, lei è così gentile. Bastava quello a fare una giornata, a farci pensare: ne vale la pena. Questa bellezza, questa idea di “servizio pubblico”, l’abbiamo persa, ce la siamo giocata in cambio di “obiettivi” da raggiungere entro l’anno. Obiettivi sconosciuti alla maggior parte dei dipendenti. Quindi l’obiettivo strategico (risultati, budget, immagine, qualità) sostituisce l’obiettivo primario: servizio pubblico. Il fatto è che non guadagniamo molti soldi (eccetto i dirigenti). Non li guadagnavamo allora non li guadagniamo adesso. Prima ti sentivi, però, parte di qualcosa e, certe sere, mica sempre, tornavi a casa contento. Di questi tempi non vedi l’ora di andartene. Ovunque purché fuori di qui.

Gianni Montieri

24 risposte a “Facevamo servizio pubblico”

  1. Al mondo tutto cambia, di solito in peggio. Consoliamoci che almeno una volta, non troppo
    tempo fa era tutto più umanamente accettabile. Umberto

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  2. caro gianni, non molto tempo fa mi sono ritrovata negli uffici della ASL a dire a un dipendente, che mi ha ricevuta con un panino in mano ad uffici quasi già chiusi, e mi ha risolto un problema per me urgente: “grazie, lei è davvero gentile”.
    sono uscita felice di averlo incontrato, e felice che persone simili esistono ancora.
    mi sono sentita un essere umano – in mezzo a esseri umani – e non un problema da sbolognare, una pratica da archiviare.
    grazie per questa tua riflessione.
    vale

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  3. La trasformazione da persone a utenti. Dici tutto. Grazie :-)
    (e sì, una persona che ti dice: “Grazie lei è così gentile” ti riempie il cuore di gratitudine, e la gratitudine – lo dice un tatuatore tosto – è quello che ti tiene in vita)

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  4. Non sai come ti capisco e come condivido ciò che scrivi e senti. Anch’io ero una dipendente al servizio del pubblico, ed ero stimata e conosciuta proprio per la disponibilità e gentilezza, le persone uscivano dal mio ufficio sorridendo, anche quando non potevo esaurire la loro pratica o le loro richieste. Lo ritenevo parte essenziale del lavoro ed ero contenta così.

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  5. Da dipendente di un Comune, seppur piccolissimo, condivido e comprendo. Paradossalmente in un comune piccolo è ancora più essenziale non perdere il contatto con le persone e non smarrire l’idea che si sta svolgendo un servizio pubblico. Grazie

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  6. a volte anche i laici aincontrano gli angeli.
    il mio primo angelo lo vidi in un cinema con le sedie di legno, scomode come nidi.

    poi san gaetano dalla asl, anima bella e gay (ne sono sicura) forse per questo sensibile ai problemi di chi non appariva nelle liste dei data base.

    e poi montieri e barreca, sperando non si brucino le ali, di fronte ai tagli degli inetti.

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  7. [poi in effetti volevo postare la sequenza che più ho amato del cielo berlinese.
    le voci che si sentono sui tram, per strada. piccole banali e fondamentali, sofferenze individuali, quasi meschine nella loro verità….e un “uomo” (angelo?) in cappotto all’ascolto. se qualcuno la trovasse, che bel regalo sarebbe rivederla, quella sequenza]

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  8. Una spersonalizzazione del servizio pubblico, ecco il vero problema! La stessa parola “utente” crea un distacco, e quel che è peggio si trasmette il malcostume anche a servizi ( sia detto con orgoglio) che non hanno nulla a che vedere con le utenze propriamente dette. Alludo alla scuola, gli “utemti” poi non è chiaro se siano i genitori o i ragazzi, ambiguità carica di conseguenze. Se l’altro è utente e tu erogatore del servizio, allora nessuno dei due è tenuto ad essere persona prima di tutto. Bravi, per aver presentato e commentato questo articolo! Uno squillo di tromba!!! Marzia ALunni

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  9. Speriamo che si trovi il modo di invertire questo trend…non credo sia un problema economico perché a parità di risorse si potrebbe rivedere la lista delle priorità pubbliche e garantire comunque il rispetto di quei servizi che sono fondamentali per la società (ma anche per la crescita economica). Lo stato dovrebbe proprio “educare” i suoi funzionari a rispondere ai bisogni dei cittadini e all’interesse generale. Se l’ambiente di lavoro non incentiva a questo, il rischio è che anche i volenterosi si lascino trascinare verso il peggio. Si entra in un circolo vizioso. Il problema è soprattutto culturale.

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  10. grazie a anche a Giovanni e Alessandra.

    A tutti, forse una buona sintesi dell’articolo e dei vostri commenti direbbe che tutto si riduce al perdere di vista le cose più importanti. Concetto, purtroppo, applicabile a tutto.

    grazie

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  11. Ciao Gianni. Le sento molto queste parole perchè anche io lavoro in un Comune e anche io ho cominciato a lavorarci nel 1996. Il pregiudizio nei confronti della gente del Sud, che pure conosco, lo vivo di riflesso, come un’eredità, perchè sono praticamente cresciuta al Nord ma non dimentico il Sud ed è come se ogni volta, quando, come sempre continua ad accadere, un ragazzo del sud viene al nord io sono quella che sta “tra”, che conosce entrambe le realtà. E mi emoziona ogni volta questo sentimento di chi arriva. E poi c’è l’altra realtà di cui parli. Hai fatto riferimento ai colleghi anziani che sono proprio l’espressione, specie negli anni 90, in quella fase di grossi cambiamenti nella Pubblica Amministrazione, quelli che fanno parte secondo me di un”piccolo mondo antico”, sono quelli che sono venuti dopo la guerra e allo Stato ci credevano veramente. Io credo che la caratteristica dell’impiegato pubblico, che lo rendeva diverso dagli altri, anche e soprattutto per esempio nella rampante Milano degli anni 80, era proprio il fattore umano e quiesto, secondo me, è sempre dipeso anche dalla possibilità di lavorare senza l’ossessione del profitto, dell’utile che contraddistingue tutte le altre professioni. Poi è arrivata la cosidetta produttività che secondo me è un concetto assurdo, applicabile come? quando si ha a che fare con servizi offerti alle persone che non sono quantificabili economicamente, soprattutto percè il Comune, in teoria, non dovrebbe avere utile. E ciò che è prevalso è stato solo il potere dei dirigenti,del tutto arbitrario e basato sulle simpatie, insomma una legittimazione del clientelismo, mentre ci sono gli impiegati che continuano per pochi soldi, con pochi mezzi a fare quello che possono e mentre prima perlomeno c’era il 6 politico per tutti (chiamamolo così, con reminiscenze sessantottine) e la possibilità di non essere vessati rispetto agli impegni extralavorativi, ora c’è una gran confusione, con i politici che vorrebbero fare i manager e non ne sono capaci e tutto si scarica, inevitabilmente, sull’impiegato pubblico che non può lavorare in autonomia. Ricordo anche io una vecchia impiegata della Pretura conosciuta proprio all’inizio del mio lavoro in Comune che diceva: i politici vanno, la Pubblica Amministrazione resta e deve funzionare indipendetemente da chi va e chi viene. Beh, adesso penso che non sia più così.

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