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Enzo Campi su “Ruggine” di Marilena Renda

di Enzo Campi

 

Abbandono e abbondanza. Les revenants  e la ruggine.

 

 

uno sguardo su (e a partire da) Ruggine di Marilena Renda

Edizioni Dot.com Press – Le voci della Luna – 2012

 

 

 

Per sviluppare un pensiero cognitivo su quest’opera bisognerebbe mettersi in linea con l’autrice: giustapporre crepe a crepe, insinuarsi nelle fenditure, ri-configurare «nomi propri» e attitudini, veicolare un’apparente pacatezza espositiva che, a ben guardare, preserva in nuce un urlo rabbioso, quasi selvaggio, quello che l’autrice definisce, a più riprese, un “ruggito”, insomma e in poche parole compiere un gesto aggiuntivo che possa affiancarsi al gesto originario. Tutto ciò, naturalmente, non è quasi mai possibile. Accade raramente che una lettura critica possa donare a un’opera un vero valore aggiunto.

Concedetemi quindi l’opportunità di tracciare un percorso su cui condurre strappi e forzature, impressioni e prosecuzioni, un percorso che non aspira al raggiungimento di una meta ben precisa e delineata, ma che cerca – non sempre lucidamente – da un lato la reiterazione del «viaggio» compiuto dall’autrice, e dall’altro lato di restituire quella sorta di “realtà sospesa” che è propria del luogo cui ci si riferisce (Gibellina).

Così come spesso accade, bisogna partire dalla fine, dalla poesia che chiude il poema

Perché le cose scompaiono, e non c’è strada

per trattenerle ancora un minuto sulla linea

del cielo presente. E questo fu imparato sulla via

delle rovine, nella direttrice imbastita dalla madre

il primo giorno che disse una parola e la terra

 

diventò un raschio di gomiti mai sollevati

dal suolo, un modo di consolare i fantasmi

che stridono i denti, che smettano alla fine

di ruggire attorno ai piedi di chi

cammina la terra che non trema.

 

Questa poesia contiene due parole-chiave, due parole che contribuiscono a comporre la catena patemica che attraversa il libro: i “ruggiti” e i “fantasmi”. Sui ruggiti ci torneremo più avanti. I fantasmi sono collegati anche ad una parte del titolo che ho inteso dare a questo sguardo.

Quello del revenant (letteralmente spettro o fantasma, ma visto che accezioni e traduzioni si moltiplicano a vista d’occhio, io opterei anche per «rinvenimento» o «ritorno», e estenderei anche alla «traccia» che persiste e rinnova il suo ciclo, senza lesinare sulle figure del «testimone» o del «sopravvissuto») è un concetto teorizzato, a più riprese e in più ambiti, da Derrida. Ma lasciando, per il momento, tranquillo il nostro filosofo possiamo affermare che in quest’opera ciò che salta subito agli occhi è una disseminazione, quasi seriale, di tracce fantasmatiche che si concedono il lusso di rinvenire, di riapparire per lasciare non tanto un ricordo quanto un segno-di-sé.

In primo luogo i fantasmi dei morti del sisma del Belice e le rovine che impongono la loro presenza (in)naturalmente spettrale.

Il fantasma, per definizione, dovrebbe configurarsi (o de-figurarsi) nell’immaterialità. Ma Renda sembra operare su una de-materializzazione di ciò che è già immateriale-in-sé, o comunque di ciò che conserva le tracce di una materialità perduta. Un’operazione quasi spirituale, direbbe qualcuno. Io credo che, in origine, ci sia anche un gesto filosofico, quasi un approccio strutturale che le consente di operare attraverso deterritorializzazioni di luoghi e tempi, giocando (si legga questo termine nella sua accezione positiva) sulle ricorrenze nominali e sui rinvenimenti.

In secondo luogo i fantasmi del teatro e dell’arte contemporanea che intervenendo sul territorio se da un lato hanno contribuito a rivalutarlo, dall’altro lato hanno creato, loro malgrado, come un doppio livello di «abbondanza» e di «abbandono».

L’abbandono non conosce mezze misure.

Si dà per eccedenza. E l’eccedenza è un correlativo dell’abbondanza.

Detto questo (e ringraziando Nancy, da cui il concetto è mutuato), dobbiamo parlare del  «fenomeno», o meglio di un doppio fenomeno, o meglio ancora di un fenomeno a cui consegue una reazione fenomenologica non certo inaspettata per i teoreti, ma comunque paradossale per i non addetti ai lavori. L’arte contemporanea viene chiamata a risanare le ferite del sisma. Ma il cosiddetto risanamento, questo specifico risanamento (che si dà per eccedenze, che reca in sé una profusione, un’abbondanza), semplificando e riducendo, si «getta» (o viene gettato) su un territorio per veicolare il bello e per nascondere il brutto. In realtà quest’operazione amplifica l’abbandono rendendolo per l’appunto sovrabbondante.

La “stella” di Consagra, la cosiddetta “porta del Belice”, ha lo stesso valore semantico di una casa diroccata (“Casa di mura, di intonaco e calce viva, / dimora di finestre in fuga, lingua opalescente / che lascia intatte le ferite della madre”). I «vuoti» (la corporeità è assente, o meglio è presente solo nelle bordature esterne), la spazialità che trasmettono questi buchi, questi  intervalli spazio-temporali (che, in un certo senso, rendono vivi i margini di acciaio) sono come un punto di fuga, areale e leggero (nonostante la struttura sia alta 26 metri), che equivale, concettualmente, al punto di fuga delle porte e delle finestre diroccate sopravvissute al sisma.

I “cavalli” di Paladino, dal mio punto di vista, equivalgono, molto semplicemente, a un coacervo di cadaveri, o comunque di «morenti». E il fatto che molti dei 30 cavalli incastonati o adagiati (gettati) su una grande “montagna di sale”  vengano restituiti non nella loro interezza strutturale ma attraverso «parti-di-sé» entra in correlazione col sistema fenomenologico del revenant. Vita e morte insieme confuse e diffuse, in un’es-tensione che contiene in sé una certa in-tensione. La conservazione (il rinvenimento di forme, o di parti di forme, dalla montagna-madre, dalla terra, dalle crepe in cui questa terra si è aperta) delle parti che componevano il tutto. E Renda procede proprio per conservazioni di parti (il poema, il tutto, è, dal punto di vista formale, strutturato o de-strutturato nelle sue singole parti, nelle sue singole aperture), innestandole (gettandole) non in un tempo univoco, ma in porzioni di tempo (ri-temporalizzato proprio nella coesistenza di vita e morte, di un presente abbondante e di un passato abbandonato) che, di volta in volta, amplificano quella sorta di disagio o, se preferite, di suadente malinconia e di pacatezza che pervadono l’opera.

Il “cretto” di Burri, amalgamando abbandono e abbondanza, diviene un’apologia, alla massima potenza, della solitudine, dello spaesamento, del percorso labirintico in cui i revenants cercano, idealmente, qualcosa che non c’è più, o meglio che è stato ricoperto e ri-strutturato. Le strade (i solchi) del “cretto” ricalcano la pianta delle strade della città vecchia. In questo caso il territorio originario non è stato deterritorializzato o differito, ma riterritorializzato in un altro-da-sé che ne permette il continuo rinvenimento. Queste incredibili «gettate» di cemento rappresentano, da un certo punto di vista, il senso primultimo dell’arte contemporanea. Vi  confluiscono il «qui giace» e il «qui agisce», lo iaceo (io sono gettato) e lo iacio (io getto). Ciò che è solo apparentemente disteso, allettato, in realtà agisce, si rende, per così dire disponibile ad essere trattato. Perché solo così può a sua volta trattarsi, ovvero veicolare il senso della sua esistenza. Sarà forse anche per questo che il poema di Marilena Renda si getta (su quel supporto soggettile terra-carta che configureremo poco più avanti) per blocchi omogenei e uniformi (strofe pentastiche in una rigorosa gabbia metrica), talmente regolari da sembrare quasi monumentali. Sarà forse anche per questo che quei blocchi letterari spesso riportano (fanno rinvenire) almeno un «nome proprio». Quanti fantasmi continuano a riproporre le proprie tracce nelle crepe, nelle fenditure di quei blocchi? Quanti fantasmi continuano a rinvenire, idealmente, nei solchi del grande cretto? (“Ma il cretto non è deserto, né roccia rossa / permutata in burrone. Eppure tra le sue anse / scivola il fuoco, crepitano i bordi del cemento / sottile, l’acqua sospira, scottano i passi / di quelli che cercano il proprio dolore”).

Detto questo, concedetemi una ripartenza. La dedica del libro recita: “Ad Andrea / crepa che protegge”. Qui, molto semplicemente, avviene una traspropriazione. Isoliamo i due elementi: il «nome proprio» e la crepa. Questo libro è anche un libro dei nomi, come fa giustamente notare Maria Grazia Calandrone, nella prefazione. Per prima cosa ci tocca notare come l’autrice non si limiti ad un mero elenco, ad un semplice palinsesto, per così dire, umanitario. Così facendo, operando per caratterizzazioni, il libro dei nomi diviene il libro delle nominazioni, ovvero delle fattualità – anche e soprattutto ri-concettualizzate in chiave poetica – in cui rischiare l’estensione del semplice nome (”C’è una follia che invita / a portare se stessi al di là del proprio nome”) in una o più azioni (o travisazioni) che possano identificarlo, o meglio fissarlo sui due principali supporti su cui l’opera idealmente aderisce: da un lato la carta-terra, doppia superficie su cui imprimere i segni e tramandare le ferite; e dall’altro lato la ruggine che investe gli elementi, sia quelli animati che quelli inanimati. Entrambi i supporti sono da intendersi in senso soggettile (nelle accezioni che Derrida conferiva ad Artaud), vuoi solo perché partono da un incipit sismico, e quindi da un evento cruento e improvviso, per così dire convulso e compulso. Questa terra che trema e si apre si può facilmente identificare, ad esempio, con le fibrillazioni di un corpo attraversato da una scossa elettrica, un corpo già agìto e sul quale sia possibile agire nuovamente (si vedano, nell’opera, come già accennato, i riferimenti alle creazioni teatrali (“Orestiadi”) e agli interventi artistici che hanno investito il territorio di Gibellina negli anni successivi al sisma; ma anche i passaggi letterari che recano termini come “singulti”, “soprassalti”, ecc.).

La scossa elettrica è qui il terremoto che fa fibrillare la terra. E lo sciame sismico che ne consegue diviene una sorta di sciame letterario, uno sciame di onde, anche sonore se vogliamo, rivolto a dar corpo alle parole.

Cosa ci dicono queste parole?

Cosa cantano queste parole?

Cantano un’apertura, o meglio: cantano l’aperto. Le crepe nel terreno sono, a tutti gli effetti, delle cicatrici che, nell’immaginario e nel ricordo (nel rinvenimento del ricordo), continuano a riaprirsi. Le crepe nelle pareti sopravvissute al disastro, e che ancora resistono all’incedere del tempo, ne rappresentano la figurazione (“Le mura sono carta da zucchero, lasciano trasparire / i singulti invisibili delle vite altrui, i soprassalti, / i terrori, gli effluvi”).

Cosa fanno queste crepe?

Offrono il loro cavo.

Ed è proprio questo il gesto che compie Renda nella sua scrittura: apre il guscio e offre un cavo predisponendolo alla visita dell’ospite (“Un guscio di casa rovesciato, estinto, / dice che è il tempo di giungere al volto, / di asciugare la pietra con tamponi di sale”). Ma, attenzione, al di là delle dilatazioni poetiche e letterarie, qui siamo in presenza di una doppia fenomenologia: l’autrice è essa stessa un ospite. Attraverso i “volti” invisibili che evoca, essa giunge, idealmente, al suo stesso volto o, se preferite, alla figurazione del suo stesso volto, al volto-bambino circondato da rovine (“C’è una luce di soffioni che cresce intatta / sulla bambina di latta e temporale. / Alla luce rammenda le attaccature / degli arti, ricuce i fori che l’aria ha aperto, / imbastisce un discorso ai pertugi stretti / in mezzo alle ferite, alle valli scavate / tra gambe e braccia, tra clavicole e glutei”). L’autrice è nata 8 anni dopo il sisma, i suoi ricordi cominciano solo dopo il trasferimento dalla “baracca” (“La casa di latta non protegge e non punisce”) alla cosiddetta new town. Da qui al fatto di poter essere considerata ospite della sua stessa scrittura il passo è breve. In un certo senso il revenant per eccellenza è la stessa autrice. Essa compie il gesto del ritorno e procede al rinvenimento di un avvento da ri-strutturare, da ri-edificare proprio nel gesto di una scrittura che si concede il lusso di espellere passaggi come “A coprire la madre è un velo di ruggine / che si pasce e si scioglie nelle ore del sonno” o “La baracca copre e discopre, offende e difende: / l’amianto infetta e punge, il cemento pesa, è amico, / è un’anima di muratura presa tra peste e aria, / e nel mezzo una stanza, da cui non passa il mondo, / e non ha finestre, e nemmeno tocca il cielo”.

Come potrete osservare, i livelli di quest’opera non sono elementari. Sono difatti stratificati. Tanto per restare in tema si potrebbe parlare di una sovrapposizione di faglie concettuali ed emozionali tese (o es-tese) a ricercare un ideale connubio tra physis e psyché, tra il nomos (l’intervento politico e/o legge imposta dall’uomo:”L’emorragia di Stato fa gridare al ricatto, alla pietà / non vista e indispensabile, alla sciagura ignorata”) e il pneuma, il respiro, il soffio, da cui derivano la vita e la predisposizione all’apertura e che, beninteso, può trasformarsi anche in un urlo di denuncia: “C’è una follia didascalica che domanda / ai contadini di rovesciare i margini in centro, / di camminare tra i costoni, in mezzo ai fuochi, / di riconoscere nella stella di rovina / che siamo noi quella tempesta, che tempesta / è questa storia”.

Questa scrittura – così rigorosa, così apparentemente chiusa, incorniciata, circoscritta ad un solo, unico evento – è in realtà un’apologia dell’aperto. Non solo perché offre innumerevoli punti di fuga, non solo perché fomenta come un gesto di prosecuzione ma, anche e soprattutto, perché si offre ad essere visitata, oserei dire scandagliata, proprio in quelle piaghe, in quelle crepe che si consegnano all’avvento della ruggine che investe gli elementi e intacca, idealmente, anche i corpi, in quelle crepe che si consegnano ai fantasmi che rinvengono dalle rovine, agli spettri monumentali che hanno investito il territorio, in quelle crepe che chiedono solo di essere «abitate» e rivalutate. E non solo, la scrittura di Marilena Renda si offre ad essere visitata anche nelle pieghe spazio-temporali che designano l’arco di una poetica volutamente ellittica, che ritorna sui nomi, sulle cose, sugli elementi, ri-definendoli e ri-configurandoli (abbiamo già citato questo passaggio ma, in un regime di revenants, ci tocca ri-proporlo: ”C’è una follia che invita / a portare se stessi al di là del proprio nome”) in una sorta di tempo-nuovo, quello che l’autrice, in un passaggio significativo, definisce “tempo della fine ancora da venire”.

In poesia non si dà mai una fine. In questo poema non si dà una fine. Si dà casomai il senza fine di una fine sempre annunciata e mai conclusa.

“Ci siamo infilati in una delle case rimaste in piedi dal terremoto: una casa a tre piani. Al piano più alto c’erano solo vetri e finestre rotte, allora siamo scesi e lì, in mezzo a un’enorme stanzone vuoto e abbandonato, c’erano delle finestre spalancate e un tavolo enorme. Al piano più basso c’era un armadio dai cassetti aperti e, per terra, centinaia di sacchetti per biscotti. Vuoti, mai usati: abbiamo capito che quarant’anni fa questo doveva essere un panificio. Poi, subito a sinistra, uno stanzone che doveva essere stato un magazzino: cassapanche, una guida dell’Abruzzo aperta alla pagina di Sulmona, bottiglie vuote, formine per biscotti. Incredibile pensare che in quarant’anni nessuno abbia spostato nulla, che tutto sia rimasto fermo a quel giorno: non sembra neanche possibile che il passato possa non spostarsi di un millimetro”

E veniamo alla ruggine, coprendo gli elementi e fondendosi con loro crea come un corpo nuovo che si presta ad essere usato, ab-usato, o semplicemente abbandonato a se stesso. Nessuno ci vieta di lavorare su questo nuovo corpo (la vecchia città e la new town, il luogo dei padri smembrato e il luogo dei figli ricostruito anche con l’ausilio dell’arte e delle nuove tecnologie),  e a ben vedere l’autrice sembra praticarsi proprio in un’operazione di questo tipo, ovvero nell’uso e nell’abuso delle varie possibilità estensive e delocalizzanti che questa fantomatica ruggine le offre, prima in senso concettuale e poi in senso poetico. Ed è proprio per queste ragioni che le singole cose poetiche ed umane rischiano, ad esempio, la creazione di uno spazio (uno spaziamento, o, per dirlo alla Nancy, una spartizione) ideale “tra Heimat e fabbrica, tra lievito e ruggine”. E via dicendo, la ruggine viene ri-configurata, ri-classificata, ri-proposta in chiavi sì poetiche ma sempre significanti.

Concedetemi almeno tre citazioni a titolo d’occorrenza:

“Così è nostro il ritorno non greve, vergognoso / di ricontare gli aghi, tracciare rotte per gli occhi, / annodare fili di ruggine, indossare un abito di risentimento, / indicare alla bocca, ai figli, alle piume delle prigioni / un varco, una faglia a cui appendere un desiderio di stasi”

 

“La terra è un tappeto di cenere nera, di ruggine, / la foresta è un raschio di mucillagine nera / che inganna l’olfatto e si traveste da fuoco”

 

“Il labirinto indica la direzione del cerchio. / Un dio della differenza ci ha regalato queste / bussole di ruggine per il campo minato / della solitudine tra le astronavi fitte, / questi pupi-vedetta per non farci sperdere // nel vuoto quieto di finis mundi e silenzio”

In quest’opera si procede per ritorni ed ellissi, ma anche la circolarità ha una sua direzione (quantomeno il raggiungimento di uno status letterario, se non proprio esistenziale), per quanto si abbia bisogno di una bussola che indichi il cammino, l’esatto percorso ove incontrarsi-scontrarsi con quelle rovine ove diventa possibile consegnarsi al revenant di turno. Ma le bussole sono invase dalla ruggine, “gli aghi” potrebbero riportarci all’inizio o deviarci lateralmente verso un nessun-luogo. E magari Renda devia di proposito dalla strada maestra (cerca “un dio della differenza” là dove la differenza può darsi solo in un avvento di ruggine, una differenza che produce attrito; – nulla scivola docilmente sulla ruggine) perché è conscia che la terra-carta equivale a un “campo minato” (un’altra caratterizzazione soggettile) dove a ogni passo si rischia l’incidente o l’accidente (da intendersi anche in senso aristotelico), l’evento inatteso che catapulta tutto in un regime di “finis mundi e silenzio” che muta pel l’appunto la sostanza e l’essenza della cosa. È questo il canto che Renda declina nel poema, “un tappeto di cenere nera, di ruggine” che ha modificato tempi, luoghi, elementi, umanità e disumanità. Ed è da questo tappeto, da questo supporto che si levano, in battuta, i “ruggiti” e i “soffi”, da un lato le invettive contro la città «incompiuta», contro la sovrabbondanza dell’abbandono, e dall’altro lato la levità, la leggerezza, quasi l’evanescenza (in poche parole la conformazione spettrale) di quelle figurazioni  che sono disseminate lungo tutto l’arco del poema (“uomini di fumo”, “spiriti domestici”, “in questo tempo dove il vetro degli specchi si macchia di nebbia”, ecc.). Ed è proprio su questa falsariga che “Nicola” viene definito “un teatro sospeso”, che “Tommaso ignora che il mare è una ruspa”, che “Anna disincaglia vapori terrestri dalle faglie della fastosa città”. Se insisto in tal senso è per far capire che le serie dei revenants sono diverse e molteplici, ci vengono presentate su diversi livelli (la “cascata” che “una volta nascondeva una fortezza”; la “sposa” che “una volta ascoltava la voce dei pozzi”; la “madre” dal cui “ventre una volta usciva una città”) e investono tutte le stratificazioni dell’opera.  Un canto del ventre, dunque. Ma anche un canto di gola su una città che non c’è più e su una nuova città che vorrebbe veicolarne il rinvenimento. Non a caso la seconda sezione dell’opera, Lo zolfo (il terremoto), si apre con una citazione da Mandel’štam: “Non parlava con me il mio paese / non mi leggeva. Ora vuole un canto / lunghissimo, di gola – che si accordi / con fessure di terra e tremi / nelle cose.”. Ecco, questo è il sunto ideale di tutta l’opera, direi il leit motiv che traccia e cancella tutte le linee (crepe, fenditure, ferite, faglie, piaghe, cicatrici), che crea e disfa tutti i fili che mettono in congiunzione cose umane, elementi naturali e ospiti, attesi e  inattesi. “Un canto lunghissimo” ovvero, e  molto semplicemente, il poema che si snoda attraverso i suoi quattro movimenti, nominati come “L’acqua”, “Lo zolfo”, “Il lievito” e “La macchina”, e ri-nominati o, se preferite, declinati rispettivamente come “l’esodo”, “il terremoto”, “il lievito” e “la stella”. Un canto lunghissimo, dicevo, un canto “che si accordi / con fessure di terra”, che divenga esso stesso terra (proprio quella “madre dal cui ventre usciva una città”), una terra ben disposta a ricevere in sé le crepe e le ferite. Perché poi il senso di questa scrittura è quello di veicolare verso l’esterno le ferite che risiedono al proprio interno, magari “tremando” (“che tremi nelle cose”, l’aspirazione che la propria parola possa conservare lo “strepitio” del sisma e che possa restituire una sorta di vibrazione-altra) o “ruggendo”.

Sarà anche per una questione fortuita (ma non credo che sia così) che ruggine e ruggito si nutrano della stessa radice. La ru di ruina (rovina), di ruere che significava anche precipitare, di ruer che vale per scagliare, lanciare. In poche parole: le crepe, il crollo e la gettata. L’etimo non mente mai. Magari confonde e moltiplica le tracce, ma comunque indica una strada da cui non si può prescindere. Qual è la strada su cui si (e ci) conduce Marilena Renda? A dire il vero ci sono diverse strade e qui ne abbiamo battute alcune. Vorrei però aggiungere una linea, la linea (il filo conduttore) del pregnante e voluto lapsus Gibilterra-Gibellina, ovvero l’ennesima radice in comune, una doppia radice: quella meramente linguistica e quella ideale che lega tra loro, in un regime di continuità-contiguità, due paesi concettualmente simbiotici. È per me doveroso citare, a tal proposito, un passaggio della prefazione di Maria Grazia Calandrone: “Perché Renda chiama Gibellina Gibilterra, assonanza a parte? Cosa è Gibilterra se non una terra straniera su una lingua d’acqua fra continenti, un’area di instabilità tra le convinte convenzioni della terraferma, un’antica colonna d’Ercole, la sfida verso una conoscenza proibita?”. “Sfida” e “conoscenza”, proprio delle crepe, del crollo, della gettata, di ciò che può crollare da un momento all’altro e infrangersi, di ciò che può disseminarsi da quei cocci come prosecuzione per un divenire che può solo ri-calcare le rovine di cui si nutre e che rimarrà sempre da costituirsi. Per questo, l’apparente pacatezza espositiva, di cui si accennava in apertura, assume talvolta i ritmi e le movenze di un ruggito. Perché tra le righe, come già accennato, si respira spesso un’aria di invettiva e di denuncia, sia a livello sociale che esistenziale.

Concluderei, come è giusto che sia, con le parole dell’autrice, riportando per intero e senza nessun commento (se non quello dell’invito a soffermarsi sul primo rigo, per comprendere come anche la “ruggine” possa farsi tramite per un possibile divenire) una delle parti che compongono l’opera

Può fiorire anche la ruggine se un albero è vicino,

se foglie, spighe e cardi spingono e straziano

di una macchina la muscolatura; è questa

propulsione che ricorda allo scheletro teatrale

quando le sue estremità si provano a toccare.

 

Qual è la cosa che più amate di questi luoghi

che non conoscete? Quale anemia vi coglie

se intrecciate le mani alla trama screziata

di strade e piazze partorite domani?

Questa città è un nuovissimo sedimento

 

che non nasconde nulla a gru e scavatrici,

e non trattiene pietre impolverate, collane

ossidate, cucine corrose, lenti sbeccate,

piatti e quaderni, lavatrici e coltelli.

Acqua di palude, germe di malaria.

4 risposte a “Enzo Campi su “Ruggine” di Marilena Renda”