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Cose che mi sono piaciute del libro di Luciano Mazziotta “Posti a sedere” (Valigie Rosse 2019) – di Marilena Renda

Il ritmo. Il ritmo procede per sottrazione, a differenza del libro precedente in cui Mazziotta in uno sforzo di generosità espressiva sembrava voler dire tutto, voler includere tutto. Il poeta ha imparato a risparmiare i mezzi espressivi, e tambureggia i suoi punti, le sue ripetizioni e allitterazioni con una sapienza che non ci dà scampo. Gli scarti rispetto alla norma grammaticale sono minimi, per questo anche più efficaci nell’effetto di straniamento.
Nella poesia di Luciano sembra tutto normale, l’apparenza è rispettata, ma la quotidianità contiene sacche di inquietudine insospettate, varchi che aprono sul vuoto, strappi che si aprono all’improvviso e che se non fossimo attenti non vedremmo neanche («ma quello che accade ci accade di spalle»).
Si dice “si è seduto”, almeno al Sud, di uno che, specialmente dopo il matrimonio o la conquista di un posto fisso, acquisisce una postura da uomo soddisfatto. Di solito ingrassa, fa un paio di figli e si compra una macchina con cui raggiungere il mare la domenica. Mazziotta non nasconde il suo orrore per i posti a sedere: c’è un’intera sezione nel libro, Fanno spazio, dedicata a questi piccoloborghesi soddisfatti dei propri traguardi che, proprio per festeggiarli, si dedicano ad odiarsi a vicenda, a tracciare al buio confini tra il loro e l’altrui, e nel caso di coppie felici, tra il mio e il tuo, con un astio che non si può ascrivere ad altro che allo scorno per i desideri esauditi.
Mazziotta è siciliano come me, e noi siciliani tendiamo un po’ tutti a essere ossessionati dalla Sicilia. Il problema semmai è come la visione mitica dell’infanzia reagisca con il presente, che di solito è un presente di cui è difficile avere nostalgia. Mazziotta, con la temperatura gelida che si è scelto, oltrepassa il problema senza quasi vederlo. La sua Palermo è una città in cui con fatica uno si lascia alle spalle il traffico e arriva in macchina alla Cripta dei Cappuccini o a Palazzo Abatellis e, una volta lì, di fronte al Trionfo della morte di ignoto quattrocentesco, lascia letteralmente che i contorni del quadro svaniscano davanti a lui. Non esiste cornice tra passato e presente, il pittore è solo una delle facce del Trionfo della morte, ma nessuno trionfa, non c’è niente su cui trionfare, quei morti potremmo essere noi, anzi, potremmo addirittura portarceli a casa, continuare sottovoce, di notte, il dialogo con loro, e da loro farci raccontare la nostra vita: «chiedi al terrore dei cani da caccia ritratti/ di fronte all’olezzo di mondo fuori cornice./ e tu continua a descrivere il tutto mancante/ come se l’ecfrasi esplicita fosse una colpa./ perché non ci sono bambini e le frecce provengono/ dal fuori che è il posto a sedere che abiti./ e forse a scagliarle sei tu.»
Le sezioni centrali mi sono piaciute più che le altre, ma resta il fatto che il libro ha una compattezza stilistica che fa in modo che le sezioni che sembrano avere meno ragion d’essere delle altre facciano comunque blocco in modo ammirevole. Venendo meno alle mie abitudini di cattiva lettrice di poesia ho fatto lo sforzo di leggere le sequenze per intero, non le singole poesie; leggendo il libro tutto di fila, senza interruzioni, sono stata ricompensata da una moltitudine di suggestioni. Anzi, di azioni, perché le figure di questo libro ne compiono un gran numero: tra le altre, cercano di evitare all’acqua di allagare la casa, solo che non ci sono argini, e loro non lo sanno. Loro sono noi, e lo specchio ci rimanda un’immagine più nitida di quella che siamo disposti ad accettare.
Il libro finisce con un verso di Philip Schultz, poeta che entrambi in questo momento veneriamo: «The present remains inhabitable». Schultz racconta molto di sé, della madre, del padre, dei luoghi dell’infanzia, perfino di come è diventato insegnante. Qui, il meglio è rimasto sospeso nelle figure di soglia: case cancelli recinti porte pareti pozzi voragini. Qui, dalle soglie può entrare letteralmente qualsiasi cosa, ma nulla ci turberà mai quanto quello che siamo capaci di vedere da soli, al buio, o tra i pulviscoli della luce.

© Marilena Renda