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Questo Natale #10: Anna Toscano, Il Natale di Garcia

MIlano, Villa Litta, foto gm
MIlano, Villa Litta, foto gm

Il Natale di Garcia

“Maestro Garcia, il volume! Abbassa il volume Maestro Garcia!”.
Vaccacapra sempre la stessa storia in questa topaia, il prossimo mese me ne vado.
“Maestro Garcia abbassa! Basta con questa televisione!”.
“Devo distrarmi per tutti i pianeti, lasciatemi in pace! È Natale anche per me!!!”
“Rispondi Maestro, apri questa porta”.
“Andate via, non osate entrare”.
“Maestro buttiamo giù la porta, Maestro rispondi”.
“Via via via andatene via”.
“Maestro, Maestro, madre santissima parlami Maestro, mi vedi? Mi senti? Misericordia chiamate un dottore”.
“Ma che dottore e dottore, per tutti i pianeti ti vedo e ti sento anche troppo, adesso chi la paga la porta?”.
“Un medico subito, Faria chiama l’ambulanza”.
“Ma sei sorda Aparecida, non chiamare nessuno”.
“Faria subito! non parla, guarda ha tutta questa bava, muove un po’ gli occhi, santa madre santissima”.

Le donne e gli astri la mia rovina, questa capra non ha mai capito nulla sa solo andare avanti e indietro con quel suo culo secco per le strade, e poi piange che tira su pochi soldi, con quel culo secco dove vuole andare. Quale forza misteriosa me l’ha messa nella stessa pensione, ogni mattina a piangere e a chiedermi le carte.
“Maestro Garcia, maestro Garcia ti prego rispondi, dimmi qualcosa”.
Dimmi qualcosa, dimmi qualcosa, tutte con le stesse due parole in bocca: dimmi qualcosa. Sono passati ormai vent’anni da quando, in un dicembre caldissimo, andai a sedermi all’ombra di un albero in praça da República: ero lì seduto su un masso che recinta un laghetto artificiale, sudavo e maledicevo tutti quelli che mi avevano detto no nei negozi. Ero uno dei tanti giovani che veniva dalla costa e cercava fortuna nella metropoli, giornate di sorrisi stirati e mani che indicavano l’uscita. Molti di noi si infilavano nei bordelli a basso costo, alcuni si avventuravano per due soldi nei viaggi procurati dal crack, tutti dormivamo lungo la strada. Io cercavo di non rovinare troppo gli unici pantaloni con una giacca che mai avessi posseduto, me li avevano regalati i miei fratelli, con una colletta in paese, per sposare Doralice.

Di andare nei bordelli non ne avevo voglia, il caldo secco senza vento mi stava ammazzando. Ero abituato alla costa, al vento che ogni mezzora cambia le onde e i rumori, non avrei potuto resistere a lungo in questa città, pensavo. E invece ci sto da allora, da quel giorno in cui seduto sul masso decisi di fermare il sudore che mi colava dalla teste col fazzoletto che tenevo in tasca: mi aggiustai il nodo sulla nuca, stesi la giacca sulla rete accanto, incrociai le gambe intenzionato a lasciar scorrere le ore fino alla sera. Pensavo in quale parte della città andare ancora a cercare, tornare da Doralice senza un lavoro e senza un soldo non potevo: dovevo trovare modo di calmare la sua rabbia e sfamare noi e i sette bambini che, anno dopo anno, abbiamo messo al mondo. Ero lì seduto e apro gli occhi e vedo una donna sulla quarantina seduta di fronte a me, composta, sul masso di fronte, le gambe unite dalle ginocchia alle caviglie, i capelli raccolti e una specie di crestina in testa, un fazzoletto in mano, lo teneva stretto e ne mordicchiava un orlo, sudava anche lei nella camicetta leggera. Mi guarda e mi dice “Voi che sapete, Maestro, ditemi cosa devo fare, ditemi tutto”. La guardo e per prendere tempo respiro, cerco di capire se mi abbia confuso con un altro, lei allora si alza di scatto “Anche gli astri non mi aiutano” dice voltandosi e piazzando sotto i miei occhi un culo enorme, grandissimo, di quelli che paiono aver inghiottito il resto della persona. Per un culo così farei qualsiasi cosa, “un attimo, mi stavo allineando ai pianeti e agli dei che mi danno ascolto”, lei si rigira e si siede di scatto di fronte a me, l’occhio un attimo prima offuscato dalla delusione ora si spalanca lucido e in attesa. Penso al suo culo, penso che devo farlo tornare, penso e dico “nelle prossime ventiquattro ore avrai un segno chiaro dagli astri, poi devi rubare un mazzo di carte portarmele e solo così l’anima che ti segue potrà parlarmi”. Lei annuisce con la bocca semi aperta, annuisce debolmente. Ho paura che non abbia capito, sto per ridirle tutto ma lei scatta in piedi e va via, attraversa la strada e si infila in un portone. La seguo con lo sguardo, dopo di lei altre donne entrano nel portone, indossano una crestina anche loro. Decido di non passare la notte lì steso sotto un albero, e così trovo una pensione, Pensão Senzala, una topaia infame in rua Guaianases, dormo in un cunicolo con una rete, un materasso, un lavello lercio, segni del passaggio di insetti ovunque. Il giorno dopo ero pronto sul masso, legato alla testa avevo uno straccio raccolto per terra, con delle stelle e delle righe. Io la aspettavo con gli occhi a malapena socchiusi, ma anche così non potevo non vedere quel suo culo enorme avanzare. Si siede “Maestro, Maestro grazie. Il segnale è arrivato. Ecco le carte. Sono pronta”. Dispongo le carte come ho visto fare in una telenovela, le guardo, le esamino, chiudo gli occhi, muovo le mani, e dico qualcosa. Non ricordo assolutamente cosa, ma ricordo di essermi ispirato nel tono a Carlos in Dancin’ Days. Lei spalancò la bocca, le lacrime le scendevano dagli occhi, mi chiese quanti soldi. Io pensai che dovevo costruirmi una carriera, che in tre giorni avevo mangiato avanzi di altri e fumato cicche raccolte da terra ma che dovevo resistere. Le chiesi una sigaretta, le dissi di tornare quando il mio segnale si sarebbe avverato. Da quel giorno tutte le segretarie, impiegate, cameriere della zona con una manciata di minuti di pausa iniziarono a venire da me. Io mi facevo pagare e loro venivano lo stesso. Il passaparola aumentava e verso sera arrivavano anche da fuori zona, staccavano dal lavoro e venivano da me. Iniziai a guardare con una certa regolarità episodi di telenovela dai tavoli dei bar, studiavo la postura e l’intonazione della voce di attori famosi. Cosa dicevo a loro? Tutte volevano sapere di certo di un uomo, di un morto, di un figlio presente o futuro, di un lavoro, ma soprattutto di un amore. Tutte pensavano che le avessero fatto una macumba rovinandole in amore, allora io scioglievo la macumba. Mi sono messo a studiare, imparare le parole degli astri, i movimenti dei pianeti, la faccia delle carte, la potenza delle macumbe, le anime accompagnatorie, candele colorate, erbe salvifiche, la luce e il destino. Ogni venerdì sera prendo l’ultimo pullman per andare da Doralice, entro con i soldi in mano e lei sorride, ha sorriso per altri sette anni, al quattordicesimo figlio messo al mondo ha smesso di sorridere per una paralisi. Io sostengo per il parto, lei dice che dopo il parto stava benissimo, le è venuta quando ha visto la polizia venire a casa a prendermi. Ma sono stato via poco, mi sono spiegato, ho allungato delle banconote e sono tornato a casa. A Doralice ho detto che era un problema del mio capo, dell’ufficio in cui lavoro nella metropoli, che volevano solo sentirmi, lei non l’ha bevuta ma ci ha bevuto molto sopra, così tanto da non ricordarsene più nemmeno alle successive visite della polizia. Le donne mi cercavano in continuazione, gli stregoni della piazza iniziavano a odiarmi. Alcune andavano da loro dopo esser state da me, erano quelle che io adoravo, quelle con quei culi grossi che sembravano essersi mangiati tutta la figura e raccontavano che per sciogliere loro una macumba le facevo tornare tre quattro volte, che confessavo avessero fatto loro macumbe pesantissime e non riuscivo, fingevo svenimenti mentre tentavo di liberarle. Alla fine, stremato dalla fatica, dicevo che serviva la notte e un luogo chiuso e le portavo nella mia topaia. Lì l’inganno durava poco, con quei culi grandissimi nella mia camera non potevo tenermi, più ciccione erano più impazzivo e mi avventavo su di loro. A volte riuscivo anche a dire delle formule magiche mentre cercavo di infilarmi tra le loro enormi cosce, loro sgranavano gli occhi, piangevano come in sacrificio, alcune si ribellavano. Molte si sentivano libere dalla macumba, e sparivano per sempre. Alcune si rifugiavano dagli altri stregoni come Maga Silvana che le spingeva a farmi denuncia, voleva togliermi di mezzo perché ero il più richiesto. Le denunce partivano e arrivavano, grazie agli dei, al mio paese dove bastava allungare delle banconote mormorando dei “ma sa come succede in certi casi…”.

Dimmi qualcosa mi ha detto Doralice domenica sera mentre uscivo di casa verso il pullman. Un brivido gelido lungo la schiena, la guardo ma la sua faccia mezza paralizzata non ha espressione, l’occhio destro mi punta spietatamente. “Dove vai hai un’altra donna dimmelo, non dire balle, è la settimana di Natale non sarà mica aperto l’ufficio vero?”, incalza, mi viene davanti con il suo corpo sformato dalle gravidanze e dalla miseria, la sua faccia sembra una locomotiva che sbuffa rabbia dalla mezza bocca in movimento, “Io lavoro, gli uffici vanno avanti! Ti ho fatto quattordici figli di certo non ti trovi sola a Natale”. Poi la scena di sempre, lei cerca di trattenermi per la manica, mentre scendo le scale si aggrappa alla mia misera sacca imprecando, inciampo e lei di conseguenza, il trambusto spaventa i topi che rovistano nei sacchi sulla via. Mi rialzo a fatica, passando con le mani sui pantaloni sudici intimo ai figli accorsi sulla scala di aiutare la madre ad alzarsi. Lei mi guarda con un occhio fisso e uno rabbioso, le lacrime scendono da entrambi, con la bocca a locomotiva e una narice che si dilata sibila “Che tu sia maledetto questo Natale”.

“Maestro Garcia, maestro Garcia è arrivata l’ambulanza Maestro Garcia”.

*

© Anna Toscano

 

 

 

2 risposte a “Questo Natale #10: Anna Toscano, Il Natale di Garcia”

  1. Racconto che ha ritmo e scorre bene dall’inzio alla fine (parlando “con” i personaggi e non dei personaggi, come direbbe Flannery O’C.)

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